“L’Allucinazione
della Modernità” è uno di quei rari libri che ci costringono a pensare o, per
meglio dire, a ri-pensare i fondamenti di ciò che abbiamo edificato come “Mondo-In-Comune”
- il Mit-Welt di heideggeriana
memoria - all’interno del quale ci relazioniamo quotidianamente agli altri e
attribuiamo un senso alla nostra esistenza. Il pensiero decostruttivo e
demistificante dell’autore - il chirurgo bolognese Pier Paolo Dal Monte - ci
induce a riflettere nuovamente su ciò che concepiamo come “Ragione”,
invitandoci a ripensare il nostro stesso pensiero a partire dai suoi più
inespressi e taciti presupposti.
D’altra
parte un pensiero, se autenticamente incarnato da colui che lo esprime,
presuppone a sua volta un sentimento: il pensare scaturisce dal sentire. In
questo caso sono convinto che alla base dell’analisi lucida e rigorosa operata
da Dal Monte vi sia, prima di tutto, un forte e insopprimibile sentimento di
indignazione nei confronti di una ideologia violenta e desertificante,
definibile oggi come totalitarismo tecnico-finanziario globale, giunto ormai alla
sua massima espansione così come alla sua massima esposizione e, conseguentemente,
al suo capolinea. A proposito dell’accesa vis polemica che accompagna tutto il
testo, ma che allo stesso tempo non nasconde affatto, anzi semmai tende ad
esaltare, lo sguardo benevolo e compassionevole dell’autore nei confronti dei
suoi simili, mi sovviene alla memoria lo splendido titolo di una raccolta di
brevi racconti di Pino Cacucci, “Un po’ per amore e un po’ per rabbia”, ove
l’utopia redentrice si mescola alle ferite non più rimarginabili della storia.
Nel
nostro caso Dal Monte, operando una diagnosi puntuale e spietata della
Modernità – e chi meglio di un medico avrebbe potuto diagnosticare una malattia
di così vasta e profonda portata – ripercorre, grazie a un accurato excursus
storico-culturale, le principali tappe post-medioevali che hanno condotto
l’umanità al tanto decantato Progresso: il Rinascimento, esauritosi col cocente
fallimento nel restituire centralità al mondo dello spirito e
dell’immaginazione; la Riforma Protestante Luterana e Calvinista, con la sua
sete di salvifico martirio, scaturente in un’etica lavorativa fondata sul
profitto, sull’accumulo e sul sacrificio benedicenti; la nascita e lo sviluppo
della Moderna Scienza Sperimentale, grazie ai determinanti contributi di
Bacone, Cartesio e Galileo, con particolare attenzione alla riduzionistica
distinzione di quest’ultimo tra qualità primarie e qualità secondarie;
l’avvento dell’Illuminismo, concepito in netta antitesi ad ogni anelito di
illuminazione, ovvero a qualsiasi pretesa di elevazione spirituale da parte
dell’essere umano; il definitivo trionfo di ciò che René Guenon ha indicato appropriatamente
come il “Regno della Quantità”, caratterizzato dal fatto che tutto si può
spiegare pur senza nulla comprendere.
Con
l’avvento di quest’ultimo si profilano chiaramente i dogmi fondamentali della
Modernità: la tracotante volontà di potenza del singolo individuo, del tutto
privo di consapevolezza nei confronti dei propri limiti; l’illusione
scientifica e tecnologica secondo cui tutto è manipolabile e perfezionabile; il
mito della crescita e della produzione progressive e illimitate; la ragione
mutilata e ridotta a utilitaristico calcolo razionalizzante. Questo esaltante
processo caratterizzato dall’assioma “più” è uguale a “meglio”, nonostante
l’imbarazzante assenza della necessaria conoscenza dell’optimum, culmina con l’affacciarsi nella storia di una nuova
tipologia di essere umano, il cosiddetto Homo
Oeconomicus.
Questa
inquietante evoluzione dell’Homo Sapiens
Sapiens non soltanto non sa più che farsene, dato che nemmeno la concepirebbe,
della saggezza tanto ambita e idealizzata nell’antichità, frutto di una serena
e distaccata Vita Contemplativa, ma
si rivela estraneo anche alle categorie arendtiane della Vita Activa, dato che non può essere associato né all’agire dello Zoon Politikon né all’operare dell’Homo Faber. Potremmo semmai
identificarlo per molti versi con l’Animal
Laborans, la cui tipica occupazione oggi è quella dell’impiegato e
dell’operaio di processo descritti da André Gorz e nel cui mondo ciò che conta
è unicamente il valore di scambio di un oggetto, sia nel caso di ciò che viene
prodotto, sia nel caso di ciò che lo produce. Il soggetto si trasforma così
anch’esso in un oggetto, una merce scambiabile come tutte le altre merci, merce
tra le merci, acquistando il titolo di “forza-lavoro” o, per essere
maggiormente consoni alle recenti logiche paternalistiche atte a favorire un
normalizzante quanto subdolo sviluppo personale all’interno del luogo di lavoro,
di “risorsa umana”.
L’imperativo
dell’odierno sistema, ormai è evidente, non è nient’altro che la produzione per
la produzione, la crescita esponenziale di merci fine a se stessa, dunque senza
alcun fine che non sia la sua infinita, quanto insensata, riproduzione. A
questo punto il nostro Animal Laborans,
oltre ad essere costretto ad integrarsi come minuscolo ingranaggio, funzionale
ed efficiente all’interno della Mega-Macchina Produttiva, deve necessariamente
assumere anche il ruolo di Animal Consumens,
consumatore vorace e compulsivo, affinché la Mega-Macchina non si inceppi ed
imploda rovinosamente su se stessa. Di conseguenza è necessario che le
industrie del marketing, della pubblicità e della moda siano sempre più
fiorenti al fine di, mutuando la suggestiva espressione di Serge Latouche,
colonizzare totalmente il nostro immaginario attraverso aggressive campagne
mediatiche atte a creare una serie interminabile di bisogni indotti.
Contemporaneamente si incentiva l’obsolescenza programmata dei prodotti
acquistati e si promuove la cultura della delega e della passività. Assistiamo
così ad una pazzesca inversione della logica pre-capitalistica e
pre-industriale per cui non si produce più per consumare, ossia per soddisfare
i bisogni e le esigenze degli uomini, ma si consuma per produrre, ovvero per
assicurare il buon funzionamento del fagocitante Golem, ormai del tutto fuori
controllo.
Vi
sono due celebri miti greci che simboleggiano perfettamente la tipica dinamica
comportamentale dell’odierno “lavoratore-consumatore”: da una parte vi è Sisifo,
emblema del lavoratore alienato e reificato, condannato per l’eternità a
ripetere insensatamente la stessa inutile fatica di spingere con la forza del
proprio corpo un enorme masso in cima ad una collina per poi rivederlo ogni
volta ripiombare giù a valle e quindi ricominciare ottusamente da capo;
dall’altra parte c’è Tantalo, suo complementare, emblema del consumatore
eternamente sollecitato e, allo stesso tempo, eternamente frustrato, il quale
si trova sempre a un passo dagli oggetti dei suoi desideri (ovviamente
indotti), ma proprio sul più bello, quando la “felicità” tanto agognata sembra
ormai a portata di mano, ecco che il sogno svanisce facendo ripiombare il
nostro povero illuso nell’ansia e nell’insoddisfazione più disperanti.
Ora
però, a quanto pare, l’attuale sistema potrebbe persino fare a meno di questa
assurda messinscena, dato che macchine sempre più tecnologiche stanno
sostituendo progressivamente e in ogni settore la forza-lavoro degli esseri
umani, mentre la ricchezza prodotta sta defluendo in modo sempre più evidente
verso la cima della piramide, la quale nel frattempo si sta oltremodo
restringendo. A questo punto, seguendo la presente impietosa diagnosi, credo
sia doveroso chiedersi, come già avvertiva drammaticamente Gunther Anders negli
anni ’50, se davvero l’uomo risulti irrimediabilmente antiquato, se cioè sia
ancora possibile attribuire un senso all’umano nel momento in cui si hanno a
disposizione macchine di gran lunga più efficienti e performanti di lui, che
non si ammalano, non scioperano, né tantomeno necessitano di ferie. Perché
insomma, potremmo provocatoriamente chiederci, non sostituire definitivamente il
debole e inaffidabile uomo con inossidabili cyborg e robot, come tra l’altro
esplicitamente caldeggiato da alcuni folli tecnocrati, novelli demiurghi che si
dilettano a giocare col fuoco, avvalorando e rendendo sempre più reali le
peggiori distopie mai immaginate?
L’apocalittico
scenario tratteggiato, seppur potenzialmente attuabile a livello tecnico, non
tiene però conto degli insormontabili limiti energetici e ambientali legati
alle risorse finite presenti sulla Terra. Non tiene conto soprattutto di un
principio fondamentale esistente in natura: il secondo principio della termodinamica, ovvero
il progressivo aumento dello stato di entropia presente nell’universo. Il che
significa anche, da un punto vista più ampio, diciamo pure filosofico, la
necessaria e immutabile ciclicità di distruzione e rigenerazione cosmiche,
l’eterna e continua trasformazione di ogni cosa grazie alla quale possiamo comprendere
come la fine non sia in fondo che un nuovo inizio. Tutto ciò vale non soltanto
per la vita del nostro pianeta e dell’intero universo, ma dovrebbe essere preso
in considerazione anche per qualsiasi altro sistema complesso: sia per la vita
del singolo individuo, sia per la vita di un insieme di individui come può
essere una società o una comunità.
Oggi,
come trapela chiaramente dal testo preso in esame, ci troviamo in un momento
storico di radicale mutamento: un intero paradigma culturale sta esalando gli
ultimi ammorbanti respiri, mentre stanno emergendo all’orizzonte, in modo
timido e confuso, nuove diverse modalità di “stare al mondo”. Eppure, come
avvertiva Holderlin, “più non sono gli dei fuggiti, né ancor sono i venienti”.
Date le attuali condizioni credo sia necessario ri-mettere radicalmente in
gioco l’intero nostro sistema di abitudini e conoscenze, re-settare
completamente il nostro infernale modo di produrre, scambiare e consumare le
cose, ri-considerare e ri-valorizzare gli ambiti e i settori fondamentali per
un nuovo mondo a venire (l’ambiente, l’energia, l’agricoltura, l’artigianato,
la moneta, il lavoro, il potere, la cultura), insomma, per usare una sola
parola, ri-cominciare. A questo punto, come suggerisce Dal Monte, la prima
facoltà da recuperare per dare inizio e spazio al nuovo è l’Immaginazione, quel
Mundus Imaginalis generatore di
mondi, rimosso e represso dallo scarnificante monopensiero della Modernità. Ciò
significa riscoprire anche l’intera dimensione del Mito con la sua inesauribile
rete di Archetipi e Simboli eterni. Ciò significa soprattutto ripartire
dall’originarietà del Linguaggio, ossia dal potere istituente e formante della
Parola, la quale dona magicamente senso al Mondo facendo sì che la Realtà sia.
Nella Bibbia si legge, come sappiamo: “In Principio era il Verbo”. Chissà che
non sia giunta l’ora di attingere nuovamente al principio e generare un nuovo verbo
attivante.
Loris Falconi
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