L'uomo si comporta come se
fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che
rimane signore dell'uomo.
Martin Heidegger
Mi sembra talvolta che niente sia così sporco come le parole esse sono ricoperte dalla bava disseccata di cento generazioni di
mentitori professionisti.
René Daumal
Il
linguaggio è un modo di organizzare il mondo secondo simboli che sonori e
grafici, e che vengono variamente
combinati, secondo codici condivisi. La parola, la rappresentazione simbolica per
eccellenza, è stata, la più
importante “invenzione” dell’essere umano, come ben comprese Galileo:
«Ma sopra tutte le invenzioni stupende, quale eminenza di mente fu
quella di colui che si immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più
reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per
lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che sono nelle
Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati, nè saranno se non di qua a
mille e diecimila anni? E con quale facilità? Con i vari accozzamenti di venti
caratterizzi su una carta? Sia questo il sigillo di tutte le ammirande
invenzioni umane»[1]
Siccome quest’”invenzione” è una componente
fondamentale del nostro “sistema” cognitivo, è’ impossibile, per noi esseri
umani, immaginare un mondo senza parole, nomi, i discorsi. È, pertanto, parimenti impossibile immaginarne
l’origine. La nostra
conoscenza del mondo è mediata da “parole”, la più parte dei nostri pensieri è costituita
da “parole”: la nostra mente è costantemente indaffarata in un incessante
soliloquio interiore; con le parole “raccogliamo” e cataloghiamo il mondo
visibile e invisibile nella nostra mente[2]
Secondo Ernst Cassirer:
«Prima di poter iniziare il
lavoro intellettuale consistente nel concepire e nell’intendere i fenomeni,
deve già essere iniziato e progredito fino a un certo punto il lavoro del
denominare. Poiché questo è il lavoro che trasforma propriamente il mondo delle
impressioni sensibili in un mondo spirituale, in un mondo di rappresentazioni e
significazioni. Ogni conoscenza teoretica prende il suo avvio da un mondo
formato mediante il linguaggio»[3].
La “rappresentazione del
mondo” senza il potere “formante” della parola è, per noi, semplicemente inconcepibile.
Se vediamo una persona a noi nota, lessa si identifica nel suo nome che, nel
nostro “schedario mentale”, ne identifica l’individualità, la sua
differenziazione nell’indistinta “umanità”, ne diviene un attributo
“ontologico”.
I nomi sono i simboli di ciò che ci circonda e di
ciò che è dentro di noi, delle cose e dei fenomeni del mondo, dei concetti e
dei pensieri, degli stati d’animo e delle emozioni, delle sensazioni, delle
azioni e delle relazioni.
“Simbolo” origina da, σύν-
βάλλω, “gettare,colpire assieme”, da cui si evince il senso di “unire”. Il
simbolo è ciò che unisce l’oggetto e il soggetto, il materiale al mentale, il significato
al significante, il mondo interiore e quello esterno, una sorta di primaria e
imprescindibile adequatio rei et
intellectus, necessaria per rendere il l’immagine del mondo rappresentabile
ed “esprimibile”. La conoscenza è questa rappresentazione del mondo che,
tramite il linguaggio, diventa trasmissibile e tramandabile.
«I bambini
sono convinti che le cose sono funzioni del loro nome. I poeti sanno quale atto
profondo e solenne sia l'invenzione d'un nome per un gatto. (…). Quando una
cosa si altera, vuole un nuovo nome proprio, che rifletta l'archetipo diverso
che ormai la regge. (…) Le cose sono ombre dei loro nomi, i nomi le
legano all'archetipo che le informa»[4].
Sul piano ontologico i nomi
erano considerati la natura e l’origine delle cose, i loro archetipi (nomina
sunt consequentia rerum): non creazione umana ma esistenti alle “origini”,
fondamento della creazione, attributi della teofania come “creazione continua”
e, pertanto, punto d’incontro tra la filogenesi e l’ontogenesi, ossia, al
contempo, cosmopoietiche e antropopoietiche, come spiega questo passo di Henry Corbin:
«Ciascun essere
è una forma epifanica (mazhar, majlà) dell'Essere divino che in essa si
manifesta rivestito di uno o più d’uno dei suoi Nomi. L ’universo è la
totalità dei Nomi con cui Egli si nomina quando noi Lo nominiamo attraverso di
essi. Ciascun Nome divino manifestato è il signore dell’essere che lo manifesta (cioè il suo mazhar). Ciascun
essere è la forma epifanica del suo proprio Signore, cioè non manifesta
l’Essenza divina che ogni volta in maniera particolarizzata ed individualizzata
con quel Nome
i Nomi divini sono essenzialmente relativi ad
esseri che li nominano, e nominandoli li scoprono e li esperiscono nel loro
proprio modo di essere. Per questo, i Nomi sono anche designati come Presenze
(hadarat) , cioè come gli stati in cui la divinità si rivela al suo fedele
nella forma di questo o quello dei suoi Nomi infiniti. I Nomi divini, dunque,
hanno senso o realtà piena soltanto mediante e per quegli esseri che ne sono
le forme epifaniche (mazahir), cioè le forme in cui essi vengono manifestati»[5].
In questo processo di
denominazione i nomi sono l’essenza delle cose che sorgono dalla matrice
indifferenziata. Il suono primordiale è lo strumento di cui si serve il
demiurgo per creare il cosmo[6], il principio di tutto, «la
sostanza originaria di tutte le cose»[7]. I testi sacri furono la
testimonianza della parola trasmessa all’uomo, il “programma” della creazione[8].
Narrano le scritture Indu: «Al principio Prajapati era solo, possedeva soltanto la Parola. La
Parola era il secondo ente. Egli pensò: voglio pronunciare la Parola ed essa
pervaderà il tutto. Allora pronunciò la Parola ed essa pervase il tutto […] e
creò la Terra, Il cielo e i mondi intermedi»[9]
Allo stesso modo il Vangelo di Giovanni riconosce la primazia ontologica
primigenia del verbo-logos:
«In Principio era il verbo.
E il verbo era con Dio
E il verbo era Dio»
La Parola era il fondamento
stesso del Dio creatore: il primo comandamento che Mosè ricevette sul monte
Sinai fu: « Non pronuncerai invano il
nome del Signore, tuo Dio, perchè
il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano»[10]
Il potere creatore della
Parola, la sacralità del nome, è un motivo archetipico che si ritrova
reiteratamente nei racconti della creazione, perché la Parola, il logos, il Verbo, è ciò che crea il mondo
ed è, al contempo, il mezzo che rende il demiurgo creatore (vedi tab.1). Dalla
Parola-Logos scaturivano i racconti
delle origini, i miti che narravano la storia della creazione del cosmo, del
tempo primordiale scaturito dall’eternità senza tempo.
Logos deriva da λέγω (lego),
“raccogliere”, “radunare”, ed è analogo la latino lego, che ha gli stessi significati[11].
Questi termini riconducono alla radice IE
leg-, raccogliere”[12]. Da questo termine
originano numerosi vocaboli come legio
(“legione”) che indica l’adunanza dei soldati, , elegans (“elegante”) che denota ciò che è ben scelto o selezionato)
e intellegere, che è il “comprendere”
inteso come “leggere dentro” i fenomeni, individuarne le loro intime
connessioni.
Il logos, il nome, è ciò che raccoglie e seleziona i fenomeni tramite
simboli o significanti e li “collega tra loro” per creare un significato,
l’atto poietico per eccellenza. È l’opera che che, sul piano microcosmico,
dipana il caos della manifestazione in
un quadro coerente per la mente, così come, su quello macrocosmico, il Demiurgo
“raccoglie” il “disordine”, il Caos e
lo “ordina” , creando il Cosmo[13].
Nel Poimandres La creazione è scaturisce dall’incontro tra il Nous (intelletto) e il Logos[14]. L’intelligenza divina
ordina il caos tramite il Verbo, allo
stesso modo in cui l’uomo organizza il mondo nella propria mente tramite i
simboli-significanti, e li dispone tramite il discorso.
Il Lògos, come abbiamo detto, è ciò che individua ontologicamente
l’uomo, ne fa un individuo unico tra la folla indifferenziata: è dunque responsabile dell’antropogenesi: «L’essenza dell’uomo è la Parola»[15]:, recita la Chandogya
Upanishad[16]. Da questo punto procede idealmente Chuang Tzu, portando il potere cosmogonico del denominare
direttamente sul piano ontogenetico nel quale l’uomo e “creatore continuo”
dell’antropocosmo:
«È camminando che si traccia la via, è nominandole che le cose sono»[17]. Il potere cosmopoietico
della parola opera una sorta di “creazione ininterrotta” nel quale
l’”osservatore” costruisce, momento per momento, il proprio mondo, così come la
teofania crea continuamente il cosmo. La via diventa “via” solo dal momento in
cui viene percorsa (materialmente
o in modo virtuale”) quell’unica via “effettiva” tra le miriadi di vie possibili.
Allo stesso modo,, le “cose”
visibili e invisibili, sono una congerie indistinta, un caos privo di
differenziazione se non viene loro dato un nome che crea un loro “posto” nel
mondo della rappresentazione, che è la rappresentazione del mondo.
Un leccio è uno dei tanti
alberi indistinti nella verde in distinzione di una foresta se è privo del nome
che lo distingue da altre specie. Un essere umano è indistinta massa di carne
nella folla, se non conosciamo di lui ciò che ne fa un individuo, una
singolarità nel nostro mondo: il nome e la forma: « Nome e forma descrivono le
cose, ma primo viene il nome, perché riflette l'archetipo a cui esse
appartengono»[18]
Il linguaggio è, dunque, uno
dei pilastri portanti dell’edificio della conoscenza e, proprio per questo,
reca con sé una duplice “patologia”: una, per così dire “benigna” e l’altra,
che potremmo definire “maligna” (per usare la metafora oncologica).
Per inquadrare la prima è
sufficiente rendersi conto che il nome, come abbiamo poc’anzi enunciato
sottolineandone le caratteristiche “ontologiche”, siccome è simbolo, segno o
significante non si identifica esattamente col significato, ovvero, se ci
riferiamo al mondo fisico, nel fenomeno o nell’oggetto. La parola è sempre Maya: illusione o simulacro (idolo).
Conoscere i nomi delle cose non equivale a sapere/assaporare.
Come recita Lao Tze, per quanto in senso più
metafisico: «Il Tao che può essere detto,
non è l’eterno Tao. Il nome che può essere nominato, non è l’eterno nome»[19].
Se è vero che l’uomo
“raccoglie” e “raduna”, ovvero organizza il mondo nella propria mente mediante
i nomi, le parole, non è altrettanto vero ch’essi ci restituiscano il “sapore”
del mondo. Dimenticando questo si rischia di rimanere ammaliati da quella che
abbiamo definito la forma benigna tra le patologie che la “magia del nome” reca
con sé, ovvero il nominalismo: il confondere il significante col significato e
l’immagine-eidolon con i fenomeni e
concetti (anche se, è più facile che questi ultimi siano affetti dalla forma
maligna, della quale parleremo tra poco)
Cercheremo di spiegare,
in parole più semplici, questa che può sembrare un’inutile sottigliezza, e che
potrebbe attirarci la critica di nominalismo
nel momento stesso nel quale critichiamo quest’attitudine epistemica. [Il fatto
è che il nominalismo complica sempre queste questioni: conoscere i “”Nomi di
Dio non significa “assaporare” i misteri della teofania].
Troppo spesso, il nostro
modo si “spiegare” il mondo si limita alla semplice rappresentazione verbale
dei fenomeni[20] che scambia la
“spiegazione” con la denominazione.
Viene dato un nome a qualunque cosa e, quindi, si
crede di conoscere qualunque cosa. Siamo informati che un certo elemento si
chiama Manganese, che ha un numero
atomico di 25, che significa che è il venticinquesimo elemento sulla tavola periodica.
Oppure siamo a conoscenza che
l’animale che chiamiamo “elefante”, viene definito secondo tassonomia
“scientifica”, Elephas Maximus, se è
quello indiano, oppure Loxodonta cyclotis,
se è quello africano. Così come il leone e il baobab hanno, nomi scientifici che sono diversi da quelli
colloquiali (Panthera leo e Adansonia digitata), e che una certa
stella si chiama Alpha Centauri.
Se torniamo all’esempio
della pratica medica (che abbiamo già adottato nella parte precedente)
constatiamo che, nel procedimento clinico, vengono “raccolti” (léghein) i fenomeni che si manifestano
sotto forma di segni e sintomi. Facendo questo estrapoliamo dal nostro
schedario mentale i nomi che li identificano, che vengono radunati (nuovamente léghein) in “costellazioni”. Questo
raggruppamento individua il nome di una patologia o una sindrome. Da qui ha
origine un’ulteriore sequenza di nomi che definiamo “percorso diagnostico e
terapeutico” che, il più delle volte, trascura l’individualità del paziente.
Se quest’opera di
classificazione è necessaria per fornire un orientamento nel multiforme
universo semeiotico e clinico, l’effetto collaterale di quest’attitudine è dato dal fatto che la conoscenza
(specifica, in questo caso) tende ad assumere un aspetto alquanto nominalistico
che trascura quella che, sotto la scorta di Michael
Polanyi, abbiamo precedentemente definito “conoscenza personale” (Personal Knowledge)[21] che, sola, può rendere
davvero conto del “sapore” dei fenomeni e degli oggetti. Se non comprendiamo
questa distinzione, non riusciamo ad “immergerci” nella realtà dei fenomeni
concepita secondo il “sensus communis”[22] (anch’esso descritto nella
parte precedente) che, ad esempio, è il significato autentico del termine “cum patire”. Pertanto rinunciamo alla
possibilità di “assaporare” aspetti della realtà che sfuggono alla
classificazione descritta.
Come diceva, ancora, Augusto
Murri: «Il rimedio nasce dopo aver fatto lʼanalisi del
malato, non dopo aver dato un nome collettivo al processo che lʼaffligge»[23].
Se si trascurano questi
aspetti, la conoscenza assume un
aspetto prettamente nominalistico: diviene una sorta di “percorso obbligato”
nel quale le percezioni e i dati dell’esperienza vengono dotati di un nome e
immediatamente situati in una sorta di «classificatore mentale», che elabora i
«dati» di ciò che abbiamo percepito in modo da interpretarli mediante la
congerie di nozioni delle quali siamo stati ingozzati (e tanto peggio per i
fatti).
Come rileva Jacques Ellul:
«Siamo sempre più abituati all’idea che ciò che consideriamo reale
(addirittura sensibile) è solo la posizione su una griglia culturale di un
reale. Tutto ciò che conosciamo è l’effetto di un apprendimento culturale che
ci fa vedere e capire certe cose, senza alcuna oggettività. […] Quando scopro
che il legno che tocco è fatto di vuoto e atomi che si muovono a velocità
inaudita, quando scopro che tutto l’ambiente solido che mi circonda è in realtà
minacciato dall’antimateria, che massa ed energia sono interscambiabili, mi
inserisco in un universo astratto, il reale che mi circonda non è più
significativo né certo, e colgo come unica certezza il numero, indipendente e
autonomo»[24]
Tuttavia,
ripetiamo, il problema della natura nominalistica della conoscenza è il meno
grave tra i due che abbiamo elencato. Dal momento che, sin qui, si è cercato di
sottolineare l’importanza “ontologica” del “nome”, sarà facile comprendere la
natura di quest’ultimo. Nonostante siano ormai trascorsi alcuni secoli
dall’impostazione razionalistico-positivista della conoscenza, l’uomo rimane un
essere scarsamente riducibile all’esclusivo “principio di ragione” [25]. Siamo esseri
emotivi, alla continua ricerca di significato per i nostri significanti:
“il bisogno di
ragione consiste nel rendere conto di tutto ciò che sia o che sia avvenuto. A
ciò sospinge non la sete di conoscenza — il bisogno può manifestarsi in
connessione con fenomeni ben noti e del tutto familiari — ma la ricerca di
significato. Dare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è
il modo dell'uomo di far proprio e, per dir così, disalienare un mondo al
quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero.”[26]
La definizione di “bisogno
di ragione” potrebbe, a tutta prima, sembrare in contraddizione con quanto da
noi affermato circa il nostra natura di esseri emotivi. Per chiarire quest’
apparente incongruenza è bene fare qualche passo indietro e scrutare un po’ più
in profondità i significati del termine “ragione” che, ai tempi nostri, è
divenuto un significante assai vago.
L’uomo è stato
definito “animal rationale”: l’”animale provvisto di ragione”,
trasposizione imprecisa dell’aristotelico zòon lògon èchon[27] ovvero, l’essere vivente provvisto di logos
(traducendo quindi il termine lògos con “ragione”) . Questo chiasma
semantico tra “ragione e “discorso” (usando il termine logos in questo
senso) può essere foriero di notevole confusione. Siccome stiamo parlando di
linguaggio dovremmo far nostra la massima confuciana che recita. «Nell’uso
delle parole il saggio non è mai improprio»[28] e fare qualche
precisazione in questo senso.
“Ragione” è
termine che traduce il latino “ratio”, che significava “calcolo”, computo”.
Questo potrebbe farci pensare che il significato possa coincidere puntualmente
con quello del sintagma “pensiero calcolante” (così stigmatizzato da Heidegger
che vi contrapponeva il concetto di “pensiero meditante”) [29].
In realtà le cose
sono un po’ più complicate. Se seguiamo il Benveniste[30] scopriamo che il
termine descriveva l’operazione di calcolo secondo il modo di contare degli
antichi, che consisteva nel
mettere uno sopra l’altro i “pezzi” da contare fino ad ottenere la summa (la
“cifra che sta sopra”). L’espressione usata dai romani per le operazioni di
calcolo era “rationem ducere”, che suggerisce l’atto di “radunare” gli
oggetti per contarli, e quindi “connetterli” secondo “calcolo” o “proporzione”.
Dal punto di vista cognitivo
quest’operazione non è solo un banale “contare” ma uno stabilire una
vera e propria connessione tra gli oggetti comparandoli. Quest’aspetto riporta
all’etimologia del termine “ratio” che, attraverso il paricipio passato
“ratus”, deriva dal verbo “reor” (“pensare”)[31]. Quest’ ultimo è
riconducibile alla radice indoeuropea ar-1. re-* che è comune anche al greco àrarìsko
(ἀραρίσκω: “aggiustare”,
“adattare”, “congiungere”, “connettere”), nonché ai lemmi latini ars
(arte), ritus (rito) e artus (arto)[32]. Secondo il Pokorny,
dalla stessa radice deriverebbe anche ἀρετή (àreté: virtù, eccellenza,
coraggio)[33]. In sanscrito
troviamo il termine ṛta (l’ordo degli scolastici), ovvero “L’ordine
che regola l’andamento dell’universo, i movimenti degli astri, la periodicità delle stagioni, i
rapporti tra uomini, e tra uomini e dei”[34], ovvero l’ordine
immanente al “creato”: ciò che connette in una disposizione “coerente” il
.disordine del caos operando la “creazione continua” del cosmo. Secondo i Veda ṛta è ciò che mantiene
il funzionamento corretto dell’ordine naturale, morale e sociale.
Tenendo conto di
queste premesse che speriamo contribuiscano a chiarire i significati del
termine “ragione”, possiamo tornare ai rapporti di quest’ultimo col
linguaggio/discorso.
La ragione è la
“facoltà” (o “strumento”) caratteristica del “discorso”, nel quale le “ragioni”
rispettive si confrontano (“soppesano”) vicendevolmente nel processo dia-logico
o dia-lettico (da qui le locuzioni “esporre le proprie ragioni” e “aver
ragione”). Questo processo (ci si perdoni il paragone dozzinale) è comparabile
alle trattative che avvengono al mercato, nelle quali si confrontano diverse
stime di valore (ratio) delle merci, per giungere ad una sintesi
che si manifesta nella transazione
effettiva tra le due parte (compratore e venditore).
Tuttavia, se
pensiamo al secondo significato del termine, quello che potremo definire
“esoterico”, ossia il “mettere in connessione”, vediamo che è ad esso che
allude la frase di Hannah Arendt che abbiamo riportato: il “bisogno di
ragione” è il bisogno di credere che il mondo che ci troviamo ad abitare,
pensare o immaginare sia informato di significato e coerenza. Come il logos è lo “strumento” che compie
l’operazione di “raccolta” delle componenti sparse del cosmo (fisico e
concettuale), così la ratio le connette, ed entrambi creano il
microcosmo della mente (individuale o collettivo). Logos e ratio creano
l’immagine del mondo: sia lo “schema del mondo esterno”[35] che, in un
dominio più “affettivo/emozionale”, lo “schema delle convinzioni” (o web of
belief)[36].
Il bisogno di
coerenza è caratteristica dell’uomo come ”animale emotivo”: l’”animal
rationale” è quella caratteristica umana che, tramite la facoltà di
“connettere”, costruisce questa coerenza (e il significato). Abbiamo bisogno di
inserire in un quadro privo di contraddizioni troppo marcate i fenomeni, le
cose, i concetti perché abbiamo bisogno che “il mondo ci sia”, che possa avere
una forma che riconosciamo, altrimenti sarebbe un “non mondo”. Un mondo privo
di significato non sarebbe cosmo ma caos.[37] Queste
caratteristiche di significato e coerenza sono componenti fondamentali della nostra
visione del mondo, ovvero il mondo come ci appare che, dal nostro punto di
osservazione è il mondo tout court. Ogni nuovo dato, ogni nuovo concetto
che entra in questo quadro, necessita di un’operazione di adattamento che, a
volte, costringe a modificare profondamente il nostro schema cognitivo, sia dal
punto di vista individuale (ontogenesi) che da quello collettivo (filogenesi).
Talora
quest’operazione costituisce una discontinuità così forte col quadro epistemico
esistente sino a quel momento da metterne in discussione l’intera trama.
Potremmo definire questo fenomeno “effetto Galileo”, che Thomas Kuhn
considerò la base delle “rivoluzioni scientifiche”. È un evento drammatico, sia
per la filogenesi che per l’ontogenesi della conoscenza, a tal punto che alcuni
autori (come abbiamo già accennato nella parte precedente) hanno parlato di
“tragedia del cambiamento”.[38]
E qui arriviamo
alla seconda patologia tra quelle che reca con sé la “magia del nome”.
Il mondo di
relazione della polis è sempre stato un mondo di parole. In più, oggi, viviamo
in una società nella quale la vita delle persone è sempre più deprivata di
esperienza diretta che è quella che ci restituisce, in maniera più immediata,
il “sapore” delle cose del mondo, che costituisce lo “strato” primario dello
“schema del mondo esterno”, ma anche buona parte dello “schema delle
convinzioni”[39]. La brace è
indiscutibilmente bruciante. Basta una singola esperienza di questo fenomeno
affinchè questa “verità di fatto” nello “schema del mondo esterno” si imprima
indelebilmente nello “schema delle convinzioni” (diventando una “verità di
ragione”) [40].
Date le
circostanze nelle quali si svolge la nostra vita, i due “schemi” citati sono
costituiti sempre meno dall’esperienza diretta e sempre più da descrizioni o
narrazioni di seconda mano, nelle quali il nostro strumento epistemico diventa
la fede in ciò che è affermato secondo sensus communis ovvero secondo la
visione del mondo comunemente accettata o propalata (amplieremo il tema della
“fede” nelle prossime parti).
Il potere
“poietico” delle parole («è nominandole che le cose sono») ci rende
soggetti al loro incantesimo, la
loro forza scaturisce molto più dal loro potere di evocare che da quello di definire. Come ben
sapeva Aristotele: «Ora i suoni
che sono della voce sono simboli delle affezioni dell’anima»[41]. Questo evocare,
non suscita soltanto un moto soggettivo dell’anima, possiede la proprietà di
agire su ciò che è nominato, quasi avesse il potere di influenzarlo o mutarlo. I reati di vilipendio e diffamazione,
presenti in tutti i codici penale sono la dimostrazione di quest’asserzione. Il
vilipendio è un atto secondo il quale il potere poietico del nome agisce
“ontologicamente” sull’individuo compromettendone la nomèa, l’immagine.
L’archetipo che definisce l’individuo così come si ritiene essere e come gli
altri lo vedono. «Sinonimo di “nome” è
“onore”: ciò che lega l'uomo, l'incantesimo sociale che gli è stato fatto»[42]
Inoltre, come ancora scriveva
Aristotele:
«È come nell’anima talvolta vi è un pensiero indipendente dall’essere
vero o falso […] così è anche nella voce […] I nomi, di per sé, non sono né
veri né falsi. Infatti, la parola ircocervo significa qualcosa, ma non è né
vero né falso se non si aggiunge “esiste” o “non “esiste”»[43]
Nell’esempio aristotelico
si evidenzia che il termine “ircocervo” significa
qualcosa, ed è il significato che infonde “realtà”, nel nostro pensiero, a
ciò che è nominato, realtà che non è dipendente dalla mera esistenza fattuale.
Il mondo che ci circonda de facto è
il risultato della sovrapposizione della cultura
alla natura, è opera dell’attività
creatrice dell’essere umano collettivo, sia che questa si manifesti in opere,
oggetti, discorsi o istituzioni che, per ciò stesso, “prendono il loro posto
nel mondo”[44].
La parola “ircocervo”, come
quella “unicorno” significa qualcosa, perché quel qualcosa è stato creato e
quella creazione si manifesta, nella mente collettiva, sotto forma di immagine
(e ha quindi valenza ontologica). La non esistenza di questi esseri mitici non
ha impedito ch’essi venissero inseriti nello “schema delle convinzioni” di
innumerevoli persone, componenti indelebili della mente collettiva.
Come abbiamo detto, la pòlis si regge sul lògos/discorso; e la moderna polis ha assunto la forma di quel
“villaggio globale” nel quale ci troviamo a vivere, la cui struttura è
costituita da una trama di parole
dal significato vago o distorto. È impresa assai ardua trovare un
significato effettivo (o solo minimamente condiviso) nei “grandi concetti”,
nelle “parole alate” che informano la trama di questo mondo, nei quali il
potere di evocare eclissa quello
di significare. Termini come “giustizia”, “democrazia”, “popolo” ma anche
“etica” o scienza”, sono invocazioni nei riti collettivi attorno ai quali si
organizza il consesso umano: segni e significanti che trovano un significato
solo attraverso la griglia di una ragione informata dal sensus communis (“senza la
guida di un altro”) e, solo a quel punto, manifestano il loro aspetto
razionale nel potere delle istituzioni. Il celebre concetto hegeliano “ciò che
è reale è razionale”, è vero solo nel macrocosmo, perché la “cosmicità” è
determinata dall’ordine. Nel microcosmo della mente, viceversa, è ciò che è
razionale ad assumere le caratteristiche di realtà, ciò che è connesso secondo
coerenza e significato. Sono le connessioni operate dalla ratio che creano un significato, ordinano il caos dei fenomeni e
dei concetti infondendo realtà al mondo.
Le parole che danno forma
al sensus communis del moderno “villaggio globale” non devono avere
significato ma imporre il proprio incantesimo, che agisce in maniera quasi
spontanea per il fatto stesso che fanno il loro ingresso nel mondo e sono
riverberate da milioni di voci, e, in tal modo, creano l’immagine di questo
mondo, che è il mondo che riteniamo ex-sistere.
Non sono più un “dominio descrittivo”[45], ma un fondamento magico
della realtà (il fatto di essere soltanto narrata, non la rende meno reale di
un dato di fatto). Questo è il reale potere dei mezzi di comunicazione, essi
sono il moderno sensus communis, nel
quale la percezione è sostituita dalla narrazione che ci fa credere reale ciò
che viene semplicemente pronunciato. E questo è il motivo per il quale la
propaganda è così efficace: essa crea un codice di significanti coerente all'interno
della propria narrazione.
Ciò che è creato entra
indelebilmente nel nostro schema del mondo. E dubitare di questo schema
comporta il dubitare della coerenza e del significato del mondo, e questo fa
crollare la nostra fede in esso, la “fede nel mondo giusto”[46].
[1] Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi
sistemi., Einaudi, Torino,1970
[2] Pier Paolo Dal Monte, L’incertezza epistemica nella pratica medica.
Dall’etica all’organizzazione, Rivista Trimestrale di Scienza
dell’Amministrazione, 4/2015
[3] Ernst Cassirer, Linguaggio e mito, SE, Milano 2006, p.44
[4] Elemire
Zolla, Verità segrete esposte in evidenza,
Marsilio, Venezia 1990, p.63
[5] Henry Corbin, L’immaginazione creatrice.
Le radici del sufismo, Editori Laterza, Bari 2005,
p. 106
[6] Andrè Padoux, Vāc, the concept of the word in selected Hindu Tantras, State
University of New York Press, Albany 1990.
[7] Marius Schneider, Il significato della musica, SE, Milano
2007, p.17
[8] Cfr. Barbara A. Holdrege, Veda and Torah. : Transcending the
Textuality of Scripture, State University of New York Press, Albany 1996
[9] Willem Caland W. (Editor), Pancavimsa
Brahmana. Calcutta: Asian society of Bengal 1931, XX, 14.2
[10] La Sacra Bibbia della CEI, Edizioni
Dehoniane, Bologna, 2008, Esodo, 20,7
[11] Cfr. R.
Beekes, L. Beek , Etymological Dictionary Of Greek. Brill,
Leiden-Boston 2010,
P. Chantraine, Dictionnaire ètimologique de
la langue greque,
Édition Klincksieck, Paris 1968, M.
De Vaan, Etymological Dictionary of Latin
and the other Italic Languages, Bril,l Leiden-Boston 2008.
[12] Cfr. Julius
Pokorny
, Proto-Indo-European Etymological
Dictionary. A Revised Edition of Julius Pokorny’s Indogermanisches
Etymologisches Worterbuch. Indo-European Language Revival Association 2007.
[13] Ricordiamo: da κοσμέω, “ordinare, “adornare”.
[14] Corpus Hermeticum, Bompiani, Milano
2005, p.79
[15] Chandogya Upanishad,with the commentary of S'ankaracarya,
Poona Oriental Book Agency, Poona 1942, I,3
[16] Zuang-zi (Chuang tzu),
Adelphi, Milano 1982,
p.24.
[17] Zuang-zi, cit.,
[18] Elemire Zolla, op. cit, p.63
[19] Tao
Tè Ching, in Testi Taoisti, UTET,
Torino 1977.
[20] Non stiamo parlando qui
di linguaggio matematico, che è un superiore livello di simbolismo, rispetto al
linguaggio verbale.
[21] Cfr. Michael Polanyi, Personal Knowledge:
Towards a Post-Critical Philosophy,: Routledge and Kegan Paul, London, UK
2005
[23] Augusto
Murri, Pensieri e precetti. Zanichelli Editore, Bologna 1024.
[24] Jacques Ellul,
Il
sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009, p.132
[25] E qui ci
sarebbe tanto da dire su quella paccottiglia epistemica che prende il nome di rational choice (Gary Becker)
[26] Hannah
Arendt, La vita della mente, Il
Mulino, Bologna, 1987, p. 155
[27] Cfr. Aristotele, Politica.
[28] I dialoghi di Confucio, UTET, Torino 2001 (Dialogo 305)
[29] Cfr. Martin Heidegger,
L’abbandono, Il Nuovo Melangolo, Genova 2004
[30] Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee, Einaudi, Torino 2002, p.114
[31] Deriva dal verbo “reor”: “pensare” tramite il
participio passato “ratus” nel quale si conserva il significato originario di
“contare” (pro rata pars: secondo
proporzione stabilita). Cfr. Michiel De Vaan, Etymological Dictionary of Latin and the
other Italic Languages. Brill, Leiden-Boston 2008
[32] Cfr. E. Benveniste, op.
cit; R. Beekes, op.cit; P. Chantraine, op. cit.; J. Pokorny,op.cit
[33] Cfr. J.
Pokorny, op. cit.
[34] Cfr. E. Benveniste, Op.
cit. p.359
[35] Cfr. H. Stapp, ,Mind, Matter And Quantum
Mechanics. Springer-Verlag, Berlin 2009
[36] Cfr. W.V.O Quine, From a logical point of view, Harper
& Row, New York 1963.
In
seguito useremo queste ultime due locuzioni come sinonimi
[37] Non stiamo parlando qui di
significato teleologico, ma di coerenza secondo il processo di pensiero. Una
casa distrutta da un terremoto, è priva di significato in quanto casa, anche se
la sua massa si conserva. Non viene solo a mancare la sua “funzione di
utilità”, ma viene a cessare “ontologicamente”, come microcosmo “disposto
ordinatamente e ornato” secondo la ricerca di “coerenza” (coherere) dei suoi inquilini.
[38] S.O. Funtowicz, J.R.
Ravetz,. Emergent complex systems. Futures, 26, 1994,568–582.
[39] Cfr. H. Stapp, op.cit.
[40] Qui, in maniera peraltro coerente con la
nostra descrizione di ragione, stiriamo un po’ il concetto leibniziano di
“verità di fatto” e “verità di ragione” che Leibniz descriveva in questo senso:
« Vi sono anche due tipi di verità, quelle di ragione e
quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessario e il loro opposto
impossibile, e quelle di fatto sono contingenti e il loro opposto possibile.
Quando una verità è necessaria si può trovare la ragione attraverso
l’analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, sino a che non si
è giunti alle primitive».
G.W. Leibniz, La Monadologia, Bari, 1975, p. 128.
[41] Cfr. Aristotele, De interpretazione, 16 a, 4.
[42] E. Zolla, op.cit., p.63
[43] Aristotele,
op. cit., 16 a, 10-17.
[44] H. Corbin, op.cit., p. 158
[45] Perché, in
realtà, non descrivono nulla in modo preciso
[46] Cfr. Melvin
J. Lerner, The Belief in a Just World: A Fundamental Delusion, , Plenum
Press, new York 1980